Attualità 16:44

La storia di Mohamod Keta il contadino: fuggito dal Gambia è ospite nella canonica di Don Carmine a Collelongo

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COLLELONGO – Mohamod Keta è un ragazzo di 34 anni nato a Boro in Gambia, è scappato dal lì per paura di essere arrestato e ucciso. Da poco più di due settimane Don Carmine Di Bernardo lo ospita nella canonica della chiesa madre di Collelongo.

Quando arrivo nella piazza, Don Carmine mi accoglie come fa sempre, un sorriso e una stretta di mano e poi mi porta a parlare con Mohamod che nel frattempo sta passando lo straccio sulle scale. Ci accomodiamo sul divano e Mohamod comincia a parlare così: «Sono stato salvato dalla Marina italiana e di questo li ringrazio. Come ringrazio l’Italia per l’ospitalità».

 

Mohamod è sposato ed ha tre figli, adesso la moglie e i bambini sono rifugiati da uno zio in Senegal. Ma perché sia lui che la sua famiglia hanno dovuto lasciare il posto nel quale vivevano? È lui stesso che racconta i fatti: «Nel mio villaggio facevo il contadino, mi sono indebitato con il governo per acquistare due macchine, una per arare e una per seminare. Quell’anno però non è stato piovoso come doveva e il raccolto è andato a male. Il governo non ha voluto sentire ragioni, ha preteso lo stesso il pagamento, la polizia mi cercava e per questo sono scappato per non finire in prigione. Non volevo fare la fine di due miei amici che stavano nelle mie stesse condizioni, loro due li hanno presi, messi in carcere e uccisi». Il Gambia è un piccolo stato dell’Africa Occidentale tutto circondato dal Senegal e si affaccia sull’Oceano Atlantico. Dal colpo di stato del 1994 ad opera del presidente-dittatore Yahya Jammeh vige un regime di terrore, basta un niente per essere arrestati e sparire nel nulla. Il debito di Mohamod con il governo ammontava a 8000 dalasi, quando ha deciso di andare via in tasca ne aveva 2000: «Quando sono partito non sapevo che sarei venuto in Italia dove sono arrivato a febbraio 2014 sbarcando a Siracusa. Ma prima sono passato da Tambacunda in Senegal, poi a Bamako nel Mali, poi in Burkina e in Niger. Sono entrato in Libia nell’ottobre 2013, ho lavorato ma mi hanno messo in prigione dove mi hanno picchiato e mi hanno rotto tutti i denti, sono riuscito a scappare e il mio datore di lavoro mi ha aiutato a pagarmi il viaggio sul barcone».

 

«Mohamod è in attesa di ricevere lo status di rifugiato, il giudice a Roma si è riservato l’ultima sentenza, speriamo bene». Don Carmine è quasi coetaneo con il suo ospite che descrive in poche parole: «È una persona molto onesta, se casca un centesimo per terra te lo riporta, si dà molto da fare con i lavoretti in casa e sto cercando di insegnargli il verbo essere e avere in italiano visto che lui si esprime in un misto di italiano e inglese. È un poco complicato e per questo voglio chiedere a qualche professoressa in pensione di darmi una mano». Non molto tempo fa Papa Francesco aveva esortato la Chiesa ad accogliere ma Don Carmine era già convinto da tempo: «Ho accolto Mohamod perché già lo conoscevo, lo ospito in casa mia perché non sono riuscito a trovare qualcuno disposto a farlo. Ecco, vorrei che tutti noi, la nostra comunità, passassimo dai buoni propositi ad atti concreti aprendo i nostri cuori. Papa Francesco aveva esortato le parrocchie non i singoli ad accogliere e mi piacerebbe che anche la mia parrocchia potesse impegnarsi in questo senso. Questo ragazzo ha un profondo senso di gratitudine e vorrebbe rendersi utile lavorando, anche perché due dei suoi figli sono in ospedale. Alla famiglia abbiamo mandato 150 euro, frutto di contributi dati da persone di Collelongo che mi hanno detto: “Tieni Don Cà, questi dalli a quel ragazzo”».

 

E Mohamod non ha dubbi: «Don Carmine è mio amico. Quando ero a Brescia sono stato costretto a chiedere l’elemosina non trovando impieghi. Io vorrei lavorare per me e per aiutare la mia famiglia». L’impegno di Don Carmine è proprio quello di trovargli un lavoro in qualche azienda del Fucino «così che possa essere autonomo, trovarsi una casa sua e potersi ricongiungere con i suoi cari. Starà con me fino a quando serve, fino a quando potrà vivere appieno la sua vita».

 

E la religione? Don Carmine è un prete e Mohamod è musulmano devoto visto che prega cinque volte al giorno. Ci pensa Mohamod a sgombrare dal campo qualsiasi differenza: «Si può stare insieme tra persone di religioni diverse, in fin dei conti siamo tutti fratelli». Una volta che Don Carmine portò il suo ospite a mangiare la pizza da sua nonna fu proprio Mohamod a recitare la preghiera a tavola nella sua lingua. Quando vado via ci salutiamo con una stretta di mano e Don Carmine mi rivela che Mohamod farà parte del Comitato che organizzerà la prossima festa in onore di Sant’Antonio Abate a Collelongo: «Magari potrà dare una mano con la legna per costruire i torcioni».

 

Mohamod Keta e Don Carmine Di Bernardo, due persone all’apparenza lontanissime tra loro eppure così vicine nel rispetto l’uno dell’altro. In fin dei conti due ragazzi che non vedono gli altri attraverso razze, colori o religioni ma soltanto come persone.

 

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