AVEZZANO. Hanno facce stanche, segnate, occhi spenti. Li intravedo già dal finestrino della macchina: ce ne sono alcuni seduti su un divanetto all'ingresso della tenuta. Mi salutano con un sorriso, con un Ciao un po' trascinato e quando sto per salutarli anche io, per parlare con loro, mi accorgo che non mi capiscono. Nessuno conosce una parola di italiano, alcuni parlano in inglese, altri nemmeno quello.
Inizia così il piccolo viaggio all'interno della Country House Le Rosce, una splendida residenza che si nasconde nel verde della località La Roscia di Civita D'Antino gestita da Antonia Piperni e Eliseo Fracassi dove, da due giorni, sono ospitati 20 profughi provenienti dalla Nigeria, dal Ghana e dal Bangladesh. Fino a giovedì erano in 15, ieri mattina sono arrivati gli ultimi 5. Sono tutti giovanissimi: il più piccolo, Jostel Nana (nigeriano) ha soltanto 17 anni.
Quando incominciamo a parlare, alcuni sono diffidenti e vanno via, altri cominciano invece ad arrivare dalle proprie camere. Mi raccontano da dove vengono, da cosa sono scappati, come hanno affrontato il viaggio.
Nonostante la difficoltà di comprensione, mi ritrovo a parlare con Nowsiralli, un ragazzo di 18 anni che viene dal Bangladesh. Ha viaggiato per due mesi fino alla Libia, poi da lì per arrivare in Italia.
“Sulla nostra barca eravamo in 93” mi racconta “c'erano uomini adulti, ma anche donne e bambini, loro piangevano. Per giorni non abbiamo mangiato e dormito. Siamo molto stanchi ma felici di essere qui ora. Sulla mia barca ce l'abbiamo fatta tutti, nessuno è morto”.
Nel frattempo si avvicinano Nurulislam (18 anni), Md:Uggur Hossin (21 anni), Sahadat (27 anni) e Rohul (18 anni). Sono tutti amici, sono scappati dal Bangladesh in cerca di un futuro migliore, lì hanno lasciato famiglie, fratelli, mogli.
Gli ospiti della Country House sono in tutto venti, 6 arrivano dal Bangladesh, 13 dalla Nigeria e 1 dal Ghana. I ricordi dei ragazzi parlano di tre barconi, per un totale di 619 persone. Specificano più volte di aver vinto il mare e di essere sbarcati ad Agrigento, in Sicilia. Sono tutti sopravvissuti scappando da guerre civili, guerre di religione, rischi di morte.
Rimango stupita quando chiedo loro cosa hanno lasciato di materiale, se qualcuno aveva un lavoro o un impiego. Rimango stupita perché la maggior parte di loro sono studenti di College che hanno dovuto interrompere, altri lavorano il ferro e materiale per l'edilizia. C'è un grafico e persino un contadino che lavora in una fattoria.
Sono quasi le 19:00 e i ragazzi stanno per cenare: dalla sala da pranzo proviene il suono di un pianoforte. Mi affaccio e trovo Sunday che sta suonando: “In Nigeria suono il pianoforte, tento di fare il musicista” mi racconta “sembra quasi un sogno trovare un pianoforte anche qui”.
Prima di andare via mi fermo a parlare con Antonia Piperni, che mi racconta l'excursus di questi giorni.
“L'idea di accogliere gli immigrati è nata quando la mia sensibilizzazione al problema si è unita al voler utilizzare questa struttura. Ho contattato subito la Prefettura, ho seguito tutta l'enorme documentazione e all'improvviso, a distanza di un anno, il Prefetto mi ha chiamato dicendomi che, vista l'emergenza, avrei dovuto accogliere in 24 ore venti persone. Questo è il secondo giorno che i ragazzi sono qui e io vorrei mandare un messaggio alla popolazione locale, vorrei pregarli di venire nella struttura a conoscere i ragazzi, a capire con i propri occhi la loro disponibilità. Sono ragazzi comuni come i nostri figli, ragazzi che hanno subito la violenza, che hanno attraversato il mare, e vorrei che tutti i cittadini comprendessero anche il lato umano. Chiunque voglia donare qualcosa ai ragazzi può, anzi deve farlo, perché la collaborazione della popolazione è fondamentale in questo momento. Mi sono ripromessa che, con l'aiuto di mio marito, cercherò di far visitare loro qualcosa, anche scendere in un bar e prendere un caffè. Questo non è un carcere e loro devono essere liberi. La popolazione ha paura perché non conosce bene il vero problema; io che ho vissuto l'estero più volte mi rendo conto di aver avuto esperienze bellissime, di piena integrazione e con riscontri più che positivi. Vorrei che questo atteggiamento fossimo in grado noi italiani di trasmetterlo”.
Saluto i ragazzi e salgo in macchina per andare via. Si avvicina William, mi chiede di abbassare il finestrino: “Ricordati di me quando tornerai”.
Con William ho parlato a lungo, mi ha raccontato tutta la sua vita: ma questa è un'altra storia.
Claudia Cardilli