Don Aldo Antonelli, ex parroco di Antrosano e coordinatore provinciale di Libera, dice la sua sulla figura di Padre Pio, la cui salma è in queste ore a Roma per i fedeli che si recano a San Pietro per il Giubileo della Misericordia:
«Il chiasso mediatico del viaggio turistico della salma di Padre Pio dalla cripta dorata di San Giovanni Rotondo alla piazza domata di San Pietro in Roma non può zittire tutti gli interrogativi sulla storia del cappuccino di Pietralcina. Le migliaia di flash che illuminano la bara del “santo” non riescono a diradare la nebbia che avvolge il personaggio. E tra le opposte sponde della venerazione e del biasimo, delle lacrime di commozione e dei gesti di rigetto sorge imperioso il bisogno di sapere, di vederci chiaro, e soprattutto di distinguere.
In occasione della canonizzazione di Padre Pio, decisamente voluta e pomposamente celebrata da papa Giovanni Paolo II il 16 Giugno del 2002, Giancarlo Zizola ebbe a dichiarare: “Se restano delle domande sul fenomeno di Padre Pio, tanto più inquietanti quanto più imponente è la massa che lo acclama santo in San Pietro, esse non riguardano affatto la sua santità, per quanto connotata da forme religiose primitive e fortemente antimoderne”. A noi sembra, invece, di dover affermare che il “fenomeno” pone delle domande sul fatto stesso della sua “santità”. Una santità, sia chiaro, non intesa secondo i canoni della religiosità popolare o, peggio, secondo le straordinarie capacità divinatorie; ma una santità che porti i connotati di colui che, per noi cristiani, è l’“Unico Santo”: Gesù di Nazareth.
A noi non risulta che questo Gesù abbia passato la sua vita rinchiuso in un confessionale, tra peccati e assoluzioni, così come ha fatto padre Pio. Né ci risulta che padre Pio abbia percorso, come Gesù, le strade polverose della sua Puglia accogliendo i piccoli e denunciando i poteri. C’è un libro, edito dalla Einaudi: “Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento” di Sergio Luzzatto dal quale, nel blog di don Franco Barbero, Antonio Vigilante estrae tre episodi della vita di questo frate molto significativi.
Primo. 1911-1913. Dopo essere stato ordinato sacerdote, il giovane fra’ Pio passa quasi tutto il tempo nella sua casa di Pietrelcina, perché malanni non meglio precisati gli rendono impossibile la vita in convento. E da casa sua scrive lettere ai suoi direttori spirituali, fra’ Benedetto e padre Agostino, entrambi di San Marco in Lamis. Lettere nelle quali descrive con trasporto il suo travaglio spirituale, le sue estasi, il suo rapporto personale con Cristo. Ma le lettere sono copiate, per la precisione riprese parola per parola dell’epistolario di Gemma Galgani, una donna di Lucca che aveva ricevuto le stimmate nel 1899, e il cui libro era tra le letture del giovane frate.
Due. 15 agosto 1920. San Giovanni Rotondo. Un’automobile esce dal convento dei cappuccini per giungere nella piazza principale del paese. A bordo padre Pio, acclamato dalla folla. Giunto in piazza, il frate benedice la bandiera dei reduci, che nella zona hanno organizzato le prime squadre fasciste. Due mesi dopo, in quella stessa piazza, undici contadini socialisti saranno massacrati dai soldati. All’indomani dell’eccidio, il frate accoglierà con grande cordialità nel suo convento Giuseppe Caradonna, figura di primo piano del nascente fascismo in Capitanata.
Tre. 1921. Il Santo Uffizio manda a San Giovanni Rotondo monsignor Raffaele Carlo Rossi, per interrogare il frate. Tra le altre cose, monsignor Rossi gli chiede conto di una certa sostanza da lui ordinata in gran segreto in una farmacia locale, che poteva servire a procurare le stimmate. Il frate si difende sostenendo che intendeva usarla per fare uno scherzo ai confratelli, mischiandola al tabacco in modo da farli starnutire.
Antonio Vigilante conclude, tagliente: “Il profilo che emerge è quello di un fascista un po' imbroglione, privo di qualsiasi spessore umano e culturale”. Che non sembrino irriverenti questi termini. Padre Gemelli, il fondatore dell’Università cattolica di Milano, in una relazione dopo una sua visita di ispezione lo definì “autolesionista, imbroglione, psicopatico”.
Lasciamo agli specialisti l’analisi sociopsicologica sul rapporto tra questo frate e la massa di devoti che lo adorano al limite del feticismo. A noi non resta che denunciare il fenomeno: un minestrone tossico di superstizione, di fanatismo, di miracolismo. E in più: l’esteriorità dei riti, la rinuncia al pensiero, l’affarismo, la furbizia, l’abuso della credulità popolare. E ci interroghiamo su una Chiesa tutta ripiegata nella gestione affaristica del fenomeno, convinti, con il compianto Giancarlo Zizola, che tutto ciò non fa bene alla crescita della fede e alla maturazione dei fedeli. “Dubito - scriveva su Rocca del luglio 2002 - che la fede abbia qualcosa da guadagnare da questo genere di sfruttamento del mito messo in scena. Vi è una visibilità della religione che oscura il volto del Dio di Gesù Cristo, con le maschere di un Dio falso e perfino perverso, troppo simile alle figure degli idoli delle religioni naturalistiche. Per chi sente coabitare sotto lo stesso tetto della coscienza il credente e il non credente, è legittimo, e anzi necessario dichiararsi ateo di quella specie di falso dio”».